Gli approcci psicosociali alla demenza

Gli approcci psicosociali alla demenza

Settembre è il Mese Mondiale dell’Alzheimer.

Parliamone senza ansie o pregiudizi e impariamo a conoscere insieme cos’è la demenza attraverso gli articoli della neuropsicologa Rosanna Palmeri.

Chi lo dice che non si può far niente? Gli approcci psicosociali alla demenza

Più di un decennio fa, il NICE (National Institute for Health and Care Excellence) sosteneva che aggiungere alle terapie farmacologiche anche interventi “non farmacologici” sarebbe potuto risultare efficace in termini di miglioramento cognitivo e comportamentale nelle demenze; ad oggi, sappiamo che l’efficacia di tali interventi non solo è equivalente a quella degli interventi farmacologici, ma, in alcuni casi, è addirittura maggiore, soprattutto se consideriamo l’assenza di effetti collaterali e il grande impatto sui sintomi comportamentali[1].

Negli ultimi anni si predilige utilizzare l’accezione “psicosociale” come alternativa al più generico “non farmacologico”, proprio per porre l’accento sulla comprovata capacità che questi interventi hanno di concentrarsi su aspetti emotivi, comportamentali, sociali e ambientali della cura, dando risalto principalmente a ciò che la persona è ancora in grado di fare e produrre, anziché porre l’accento su quanto è perduto. Rientra in questa categoria qualsiasi intervento non chimico, mirato e replicabile, basato su una teoria e potenzialmente in grado di fornire qualche beneficio rilevante.

 

Le principali tipologie di approccio psicosociale

Convenzionalmente, riconosciamo tre tipologie di approcci che fanno da cornice a un cospicuo numero di trattamenti, da scegliere tenendo conto delle abilità della persona, dei suoi gusti e dei suoi interessi:

 

  • Approccio cognitivo;
  • Approccio multi-strategico;
  • Approccio comportamentale-sensoriale.

Cognitivo

Al primo gruppo afferiscono tutti quegli interventi che favoriscono il lavoro sulle abilità cognitive della persona, vale a dire attività quali il training cognitivo o la stimolazione cognitiva, che puntano al potenziamento delle abilità residue, stimolando, attraverso l’utilizzo di schede, training computerizzati e attività pensate ad hoc, le diverse funzioni neuropsicologiche (attenzione, memoria, linguaggio, abilità visuospaziali, funzioni esecutive). Si tratta di interventi attuabili sia in individuale sia in piccolo gruppo, a seconda se si intende privilegiare l’approccio al singolo e alle sue peculiarità oppure alla socializzazione (è sempre più riconosciuto il ruolo che le relazioni hanno nel preservare il funzionamento del singolo).

La loro efficacia si basa sul concetto di riserva cognitiva, ovvero la capacità del nostro cervello di attivarsi per compensare o contrastare un eventuale processo patologico, ricorrendo a strategie apprese prima che il danno si verificasse e/o ricorrendo a reti neurali alternative. Il più noto approccio cognitivo è, al momento, la Cognitive Stimulation Therapy, tecnica evidence-based formulata nel contesto anglosassone da Spector et al.  che ha dimostrato di avere un’efficacia paragonabile a quella degli inibitori della colinesterasi nel rallentare l’evoluzione dei sintomi.[2]

Multistrategico

L’approccio multistrategico include interventi che ricorrono a risorse sia interne sia esterne alla persona, i più noti sono: la Reality Orientation Therapy (ROT), la terapia della reminiscenza, la Validation Therapy e la terapia occcupazionale.

La ROT, applicabile in modalità “informale” dallo stesso caregiver, si pone l’obiettivo di riorientare la persona lungo coordinate spazio-temporali e autobiografiche, attraverso ripetute sollecitazioni verbali, visive, scritte, musicali. La terapia della reminescenza coinvolge il ricordo di eventi passati attraverso la discussione, fotografie, musica o oggetti familiari; è un’attività vissuta piacevolmente anche dalla persona con una grande compromissione mnesica, in quanto i ricordi del passato rimangono inalterati più a lungo, pertanto, offrire loro la possibilità di rievocarli contribuisce a preservare un buon senso di autoefficacia percepita.

La Validation Therapy si basa sul principio dell’empatia e dell’accettazione “validante” delle percezioni e dei sentimenti della persona con demenza, senza mai correggere.

La terapia occupazionale pone il focus sulla capacità della persona di svolgere attività di vita quotidiana, cercando di migliorarla attraverso specifici esercizi riabilitativi o compensativi, promuovendo il maggior grado di indipendenza possibile e quindi agendo, in maniera più o meno diretta, sull’autostima della persona, sul suo senso di autoefficacia (dal momento che si sente ancora in grado di portare a termine dei compiti con successo) e sulla qualità di vita.

Comportamentale - sensoriale

Infine, l’approccio comportamentale-sensoriale include tutti quegli interventi quali la musicoterapia, l’arteterapia e la stimolazione sensoriale, che sfruttano diverse modalità sensoriali (olfatto, vista, udito,…) come mezzo per veicolare informazioni non verbali, la cui comprensione è conservata anche nelle fasi più avanzate di malattia, con beneficio soprattutto a livello di umore e di contenimento dei disturbi comportamentali. È stata spesso dimostrata l’efficacia di tali interventi sui sintomi comportamentali (specie agitazione psicomotoria e alterazioni dell’umore), con notevoli benefici in termini di rilassamento anche per intervalli di tempo prolungati dopo la fine della sessione.

Concludendo

Esistono ancora numerosi interventi, tutti orientati a ottenere una riduzione dell’impatto della malattia, incentivando la persona a mantenere un proprio ruolo e una propria autonomia. In questo senso gli approcci psicosociali sono da intendersi come cruciali nel trattamento dei disturbi neurocognitivi: permettono di preservare le capacità residue, migliorano la qualità della vita e forniscono supporto emotivo sia alle persone che convivono con la demenza, sia ai caregiver.

Ma, quindi, quale scegliere? In piena ottica di “approccio centrato sulla persona”[3] la scelta dell’intervento dipende in larga misura dalle caratteristiche del beneficiario, dal suo livello di abilità, dai suoi sintomi, ma soprattutto dalla sua personalità premorbosa, dalla sua biografia, dai suoi interessi e dalle sue passioni, imprescindibili se ci si vuole prendere cura della persona e non della malattia.

 

[1] Conosciuti anche con l’acronimo BPSD, dall’inglese Behavioural and Psychological Symptoms, rientrano in questa categoria tutti i sintomi non cognitivi, a carico dei sistemi: affettivo (depressione, ansia, labilità dell’umore, aggressività), psicotico (deliri e allucinazioni), neurovegetativo (sonno, alimentazione), psicomotorio (affaccendamento, vagabondaggio, agitazione). Tali sintomi sono quelli che più ricadono negativamente sul benessere e sulla qualità di vita della persona e del caregiver.

Fonti:

[2] Fonti: Spector, A., Thorgrimsen, L., Woods, B. O. B., Royan, L., Davies, S., Butterworth, M., & Orrell, M. (2003). Efficacy of an evidence-based cognitive stimulation therapy programme for people with dementia: randomised controlled trial. The British Journal of Psychiatry, 183(3), 248-254.

[3] Kitwood, T. (1997). Dementia reconsidered: The person comes first (Vol. 20).

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